
Mura Ciclopiche: chi le ha costruite?
Cosa dice l’archeologia
Chissà quante volte vi sarà capitato di visitare antichi insediamenti, in Italia e anche all’estero, caratterizzati da fortificazioni costruite con massi di pietra, calcarea o silicea, a volte enormi (megaliti), grossolanamente rifiniti, oppure di forme geometriche poligonali, ben definite, in modo tale da permettere il perfetto accostamento dei diversi elementi.
I massi di pietra, non lavorati (I maniera) o con un grado progressivo di finitura che li portava ad assumere una forma poligonale più o meno regolare (II-IV maniera), erano messi in opera a secco. Il peso stesso dei massi assicurava stabilità alla struttura, senza l’uso di leganti. Tali manufatti presentano, quasi sempre, uno spessore maggiore alla base e si rastremano verso l’alto. Si tratta di strutture che, in epoche passate, erano definite Ciclopiche, perché si ipotizzava che solo giganti come i mitici Ciclopi avrebbero potuto edificarle. Questa era l’opinione comune, ma anche quello che pensavano uomini di cultura come Strabone, storico, filosofo e geografo greco, vissuto a cavallo dell’anno zero, o Pausania, geografo e grande viaggiatore vissuto nel II sec. d.C. In alternativa, si attribuiva la loro costruzione al mitico popolo dei Pelasgi, nome generico con il quale Erodoto indicava gli abitatori della Grecia in epoca preclassica. Di essi, lo storico di età augustea Dionigi di Alicarnasso narra le peripezie che li avrebbero condotti in terra italica.
Esempi di mura in “Opera Poligonale” o in opus siliceum, come gli studiosi chiamano oggi questo tipo di costruzioni, si trovano in Grecia, ad esempio a Micene, Argo, Tirinto, databili tra la media e la tarda Età del Bronzo, ma anche in altre regioni. In Italia, si conoscono varie testimonianze di fortificazioni di città forse già a partire dai secoli VIII-VII a.C. e poi, più tardi, in età romana, quando, dai secoli IV-III a.C. tale tipologia edilizia fu impiegata anche per sostruzioni di santuari, viadotti e altre opere pubbliche e private. L’uso di questo metodo sembra, quindi, già diffuso tra le popolazioni italiche molto prima che arrivassero i romani.
Non si può escludere che, alla diffusione degli esempi architettonici più monumentali e accurati che sono giunti fino a noi, abbia contribuito, a partire dal VI secolo a.C., l’intensificazione dei contatti con le popolazioni greche del sud della Penisola. Dal I secolo a.C. esempi di tali strutture diventarono rari, anche se ancora alla metà del I secolo d. C. tale metodo fu impiegato nell’anfiteatro di Alba Fucens, datato all’impero di Claudio.